Sono già trascorsi quarant’anni, ma nella luce sospesa di Tokyo l’8 dicembre 1985 resta ancora un giorno che non invecchia. La Juventus entra sul prato del National Stadium come una squadra che si trascina appresso un’eredità ingombrante e una fame nuova: campione d’Europa in carica, eppure rinnovata, segnata da partenze dolorose e innesti da decifrare. Di fronte, l'Argentinos Juniors, ovverosia i campioni del Sudamerica, una creatura giovane e rilucente, sospinta dall’eco dei cortili di Buenos Aires e da una qual certa dose di tracotanza albiceleste. In ballo c'è la coppa Intercontinentale.
È mezzogiorno a Tokyo. Si gioca qui, in Giappone, perché nelle edizioni precedenti al 1980 la coppa prevedeva una formula di andata e ritorno che si era rivelata quantomeno tumultuosa. Gli scontri tra tifosi erano stati talmente cruenti da suggerire un territorio neutro. Dunque ci siamo. L'arbitro Volker Roth appoggia il fischietto sulla punta delle labbra e apre la contesa. Il cielo è basso, e c'è una pioggia sottile, ostinata, che si lavora le maglie delle due squadre.
Trapattoni può ancora far conto su una difesa intatta rispetto alla vittoria in Coppa dei Campioni, mentre il resto della Juve abita il tempo del cambiamento: Manfredonia e Serena a raccogliere un testimone pesante, Laudrup chiamato a congiungere ciò che è stato con quel che potrebbe diventare. E poi, naturalmente, sua grazia Platini a tenere insieme tutto. Dall’altra parte Yudica presenta un undici fedele alla Libertadores: organizzazione, gioventù, un talento come Borghi che danza a un ritmo che gli altri - più che onesta manovalanza - inseguono. Del resto l'Argentinos è stata la squadra di un certo Diego Armando Maradona, prima del suo milionario passaggio al Boca: da queste parti si sentono autorizzati a sognare.
Il primo tempo è un lungo studio, un corridoio d’attesa. Le squadre si annusano, provano ad affondare, ma poi si ritraggono. Nella ripresa però il match si apre come una scatoletta di tonno. Il gol di Laudrup – annullato – è la prima incrinatura alla cortina di sbadigli che rischiava di diffondersi nell'impianto nipponico. Il vantaggio argentino, firmato da Ereros con un pallonetto che taglia la difesa come una lama umida, è il secondo. La Juventus vacilla, rischia il colpo del k.o., si salva per un fuorigioco provvidenziale. Poi Serena cade in area: rigore limpido. Sul dischetto va Le Roi Platini e pareggia senza vacillare.
La partita ora è un organismo vivente, incerto, fascinoso. Scirea esce per infortunio, poi Platini inventa un capolavoro di sinistro - una celestiale sforbiciata volante che si infila in rete - cancellato da una posizione passiva di Serena. Il francese si sdraia sul prato, come per disinnescare la frustrazione: hanno appena dissolto quello che poteva essere il gol più bello della sua carriera. Ma l'Argentinos non si fa intimorire, non arretra: Borghi inventa ancora, Castro incrocia un diagonale feroce che si infila sotto la traversa. A un quarto d’ora dal termine la Coppa sembra scivolare lontana. E invece no: Laudrup dialoga con Platini, entra in area, elude Vidallé e rimette tutto in parità con una freddezza che ha il sapore del destino.
I supplementari scorrono faticosi, zavorrati dalla pioggia mista alla fatica. Servono i rigori per sbrogliare la matassa. Brio segna, Olguín risponde. Cabrini va sicuro, Batista si scontra con i guanti di Tacconi. Serena e Lopez non sbagliano. Laudrup invece fallisce, e il pendolo della partita torna in bilico. Poi Tacconi resta in piedi sul tiro di Pavoni, lo respinge come si respinge un’ombra. A Platini tocca il colpo definitivo: stessa rincorsa, stessa finta, stesso angolo. E stesso destino. Palla dentro, portiere altrove. La Juventus è campione del mondo per club.
Nel cielo di Tokyo si compie un ciclo irripetibile: quattro trofei internazionali in diciotto mesi, un tratto di strada che riscrive la dimensione europea – e ora mondiale – dei bianconeri. Platini riceve il premio come miglior giocatore, una Toyota che sembra quasi un dettaglio. Ma quella sera, nonostante la gloria bianconera, resta negli occhi anche la grazia giovane e impertinente di Borghi, il talento che conquista persino Berlusconi e che per un attimo incarna il calcio come promessa.
Quarant’anni dopo, quella finale vive ancora così: come una storia sospesa fra due mondi, raccontata sotto la pioggia di Tokyo, dove la Juventus diventa – finalmente e irrevocabilmente – una squadra globale.

