Dunque: Pip Finkemeyer, scrittrice australiana, in un articolo pubblicato sul Guardian di ieri (“Tech bros need the world to believe their hype. Here’s an idea – let’s just ignore them”) mi ha suscitato una piccola riflessione. Pip sostiene (la chiamo solo Pip perché Finkemeyer è troppo lungo e mi viene in mente la signorina Rottenmeier) che dovremmo smettere di credere ai tech bros, cioè a quella confraternita di maschi bianchi che si sono autoeletti sacerdoti del futuro (Elon Musk, Sam Altman, Mark Zuckerberg e compagnia bella del silicio) quelli che non vendono tecnologie, piuttosto, a suo parere, solo se stessi (alla faccia di vendere solo se stessi, credere che i razzi Starship li costruisca ChatGPT e dietro ChatGPT ci siano milioni di donne ridotte a rispondere ai prompt?).
«Il vero prodotto non è l’intelligenza artificiale», scrive Pip, «è la storia che raccontano di se stessi». Il fine non sarebbe il mezzo, è
l’ego. Dei maschi bianchi. Non per altro Pip, autrice del romanzo Sad Girl Novel (2023), nel quale si distingue per un femminismo ironico e autoironico e pop, ha però una visione un tantino distorta in senso femminista arrabbiato del mondo tech, interpretando tutto (dall’algoritmo alla leadership aziendale) come una forma di potere maschile. Pip non è la povera defunta Michela Murgia inglese, per carità, e non è che vorrebbe chiamare l’algoritmo “algoritma” (anche perché in inglese è neutro), solo che riduce la complessità della tecnologia a una questione di genere e ogni update a un atto patriarcale.
Tuttavia, proprio questa esasperazione rende il suo discorso interessante. Va da sé che la teatralità di chi ha un potere ha bisogno di raccontarsi per esistere (vale anche per Batman o per Iron man, due maschi bianchi senza superpoteri ma con il potere del denario), il che non significa che il prodotto non esista, che gli oggetti non esistano, che la rivoluzione non esista e ci sia solo l’hype. Perché l’hype, effettivamente, è finito, o è lì per finire. Nessuno crede più che l’intelligenza artificiale cambierà tutto da un giorno all’altro o risolverà i problemi dell’umanità o ci farà morire tutti domani (qualche dittatore fanatico forse sì). Solo che il punto è un altro: le rivoluzioni non si basano sull’hype, accadono molto più lentamente, quando nessuno le aspetta più. Ogni vera rivoluzione comincia quando la retorica si è spenta e ciò che resta si infiltra nelle abitudini, come già sta facendo: è già dentro le nostre vite (da molto prima che nei discorsi delle persone comuni ci fosse l’“intelligenza artificiale”), e non se ne andrà perché non è una moda, è una mutazione silenziosa.
Pensiamo a Internet. Negli anni Novanta serviva solo per chattare (il caro vecchio mIRC!), scaricare suoni MIDI, collegarsi a un sito che si caricava in mezz’ora. Dopo, senza che nessuno se ne accorgesse, ha mangiato il mondo. Non nel ’95, ma dieci o
vent’anni dopo. Nel 2005 erano ancora pochi a usare i social, nel 2010 quasi tutti. Nel 2020 non era più possibile farne a meno, e oggi Internet non è più una tecnologia, è il contesto stesso in cui viviamo, è il mondo dentro cui passiamo più tempo (tranne qualcuno come Mauro Corona che scala le montagne e si collega solo per parlare con Bianchina, ammesso la sua vita sia davvero questa).
E ancora quando Bill Gates parlava di “un computer su ogni scrivania”, sembrava una fantasia, e quando Steve Jobs annunciava
il primo iPhone nel 2007 l’hype era enorme, tuttavia nessuno poteva immaginare che quella non sarebbe stata una moda tecnologica, bensì una mutazione antropologica. Non è successo nel 2007, né nel 2010, anche lì negli anni successivi, quando il dispositivo è diventato naturale come l’aria, quando la tecnologia ha smesso di essere stupore e è diventata più naturale di un bicchiere d’acqua (tant’è che l’ha usa anche Greta Thunberg per diventare una voce globale o per collegarsi dalla Flotilla tramite Starlink). Vale perfino per le rivoluzioni culturali, ci sono voluti anni perché fossero recepiti, dagli impressionisti alla Pop Art, da Marcel Proust a me.
Con l’intelligenza artificiale accadrà lo stesso, anzi sta già accadendo. Non la vedremo più, non la chiameremo più “AI”, sarà
semplicemente il meccanismo invisibile che ci accompagna, come la corrente elettrica o il sistema operativo o lo smarthphone o le
piattaforme di streaming o gli stessi social: l’hype finisce quando la tecnologia smette di essere promessa e diventa condizione e
condizione di sviluppo di ulteriore tecnologia. Insomma, la rivoluzione dell’AI non sono i video virali di gente che parla con Leonardo Da Vinci né i deep fake (che saranno un bel problema, ma forse l’ultimo dei problemi). Alla fine Pip, che a questo punto è diventata la mia dolcissima Pip, sembra una specie di Sarah Connor al contrario: invece di prepararsi all’arrivo delle macchine, ne celebra la fine, per seppellire i maschi bianchi. Peccato che nessun Terminator stia per arrivare e non arriverà mai (e nel caso non ci sarà nessun John Connor per mandare indietro nel tempo Kyle Reese da cui far nascere lo stesso John Connor) e che la storia non abbia bisogno di eroine armate di femminismo per cambiare direzione (a proposito: Terminator era un film femminista? E Alien? In entrambi i casi le eroine sono donne bianche). Paradossalmente la rivoluzione inizia proprio quando finisce l’hype. Certo, poi il problema sarà l’uso che ne faranno gli umani (maschi bianchi o neri o femmine o trans o quello che volete), che come specie animale sono specializzati a fare cattivo uso di tutto. Ma questa è un’altra storia. Baci Pip.
Cara Pip, finito l’hype dei maschi bianchi, dell’AI resterà solo la rivoluzione
Scritto il 20/10/2025