Caro direttore Feltri,
vorrei un suo parere su una vicenda che in questi giorni ci ha occupato, e direi, distratto, per più di una settimana: la scomparsa di Tatiana Tramacere. Per dieci giorni abbiamo sentito parlare di ennesimo femminicidio, di ragazza fragile catturata da un mostro, di sequestro, droga, manipolazione mentale. Le sue foto ovunque, le prime pagine, i plastici, i parenti che parlavano di lei già al passato, come se fosse defunta.
Poi scopriamo che era
viva, in salute, a pochi metri da casa, nella mansarda di un conoscente, libera di muoversi, libera di uscire, e, a quanto pare, perfettamente consapevole. E ora sembrerebbe addirittura che abbia organizzato tutto.
Direttore, cosa ne pensa? È normale che si costruisca una narrativa prima dei fatti, che si vittimizzi chiunque solo perché donna, che si mobilitino forze dello Stato, mezzi, investigatori, mentre la protagonista della vicenda tace, si nasconde e, a quanto emerge,
lo fa volontariamente?
Io credo che tutto questo sia profondamente irrispettoso verso le istituzioni e verso chi davvero è vittima di violenza.
Cosa ne pensa lei?
Giovanni Grilli
Caro Giovanni,
questa storia è l'ennesima dimostrazione di un fenomeno ormai patologico: basta che la protagonista sia donna e automaticamente diventa vittima. Punto. Prima ancora dei fatti. Prima ancora della logica. Prima ancora del buonsenso.
È sufficiente che una ragazza sparisca qualche ora, ed ecco partire il rosario laico del femminicidio annunciato: «È stata uccisa», «lui l'ha sequestrata», «l'ha drogata, sedata, plagiata», «la ragazza è una martire».
Peccato che nessuno sappia nulla, ma tutti pretendano di spiegare tutto. È il nuovo sport nazionale: accusare il maschio, beatificare la femmina, e farlo preventivamente, così, nel dubbio, non si sbaglia mai. E allora eccoci qui: dieci giorni di telegiornali dedicati alla «poetessa sensibile», al «suo mondo interiore», ai «suoi demoni», ai «mostri che l'hanno portata via».
Peccato che la fanciulla maggiorenne, adulta consenziente, perfettamente lucida se ne stesse rintanata a pochi metri da casa sua, senza né corde né catene, senza nessuno che la custodisse, libera come l'aria di andarsene in qualsiasi momento.
Mi pare un quadro molto lontano dal sequestro di persona. E soprattutto: lo ha ammesso lei stessa. Fine del giallo.
Il problema vero è un altro: lei sapeva benissimo di essere cercata. Non era una passeggiata solitaria fra i boschi in un momento di confusione. No, qui parliamo di una persona che: conosceva l'angoscia dei familiari, seguiva l'eco mediatica, sapeva dell'impegno enorme di carabinieri e polizia e, nonostante ciò, ha scelto il silenzio, l'ambiguità, la sparizione.
Questo, caro Giovanni, non si chiama «fragilità». Si chiama procurato allarme. E in un Paese serio comporta una denuncia.
E veniamo al punto più nauseante: il vittimismo automatico. La femmina è sempre santa, eterea, pura. Il maschio è sempre colpevole, manipolatore, violento.
Una dicotomia ridicola, infantile, e soprattutto falsa. C'è persino chi, dopo il ritrovamento, continuava a blaterare: «Sì però forse era drogata», «forse era stata manipolata mentalmente», «forse non sapeva dove fosse». Ma santo cielo: era lì perché voleva starci. Lo ha ripetuto. Lo ha confermato. Non è stata privata della libertà. Non è stata segregata. Fine.
Ma evidentemente, per una certa intelligentsia giornalistica, la realtà è solo un dettaglio. L'importante è tenere in vita la fiaba tossica della donna fragile e dell'uomo carnefice. Fa comodo. Fa clic. Fa share.
E soprattutto non richiede alcun ragionamento. Quanto alla signorina Tatiana, non so perché abbia fatto tutto questo. Forse per vanità. Forse per farsi notare. Forse per una di quelle idiozie moderne che spingono certe persone a desiderare disperatamente cinque minuti di notorietà. Ma una cosa la so: ha agito con leggerezza, irresponsabilità e totale disprezzo verso chi l'ha cercata, verso le forze dell'ordine, verso lo Stato, e perfino verso la verità. Il minimo sindacale sarebbe risarcire la comunità per le risorse sprecate.
E soprattutto smetterla, una volta per tutte, di chiamare «vittima» chi vittima non è. Perché il vittimismo non è un diritto di nascita. E soprattutto non è una categoria di genere.