Il tabellone segna 120-120 e aveva appena preso una stoppata, un chiodo, come dicono i baskettari. Pochi secondi rimasti. La palla brucia tra le mani di LeBron James: quarant'anni portati con la voglia di un vecchio guerriero, il corpo segnato da battaglie epiche, la leggenda che per quasi diciannove anni non aveva mai chiuso una partita di regular season con meno di dieci punti. 1296 partite consecutive in doppia cifra, dal lontano 6 gennaio 2007. Una striscia ben più lunga persino di intere carriere leggendarie, un filo d'acciaio che attraversava ere della NBA: dai tempi di Kobe e Wade, cannonieri pazzeschi e collezionisti di anelli e record, passando per l'era degli Spurs, dei Celtics delle bombe a fil di sirena di Pierce e Allen, Miami ,la dinasty
degli Warriors, fino a questa generazione Z degli Wemby & C che lotteranno per un posto alla tavola dei grandissimi. Era diventata qualcosa di più di un record: un totem.
Stavolta, otto punti, singola cifra, roba da non credere. Per la prima volta da quando il mondo era un altro, LeBron James scende sotto 'ten'. Facciamo un breve elenco di cosette per capire di 'quanto' stiamo parlando. Dunque, Obama era un senatore dell'Illinois e non lo conosceva manco il vicino di casa, i teenager usavano MySpace, Facebook entrava per la prima volta nei dieci siti più visitati del mondo, l'iPhone era appena stato messo in commercio.
Ecco, ora è più chiaro? Il record si ferma, spezzato come un incantesimo. Ma il plot della scorsa notte non è nella fine della striscia. È in ciò che accade con la semplice cronaca. La difesa dei Raptors gli si chiude addosso. Il palazzetto trattiene il fiato: tutti aspettano il canestro forzato, l'ennesimo miracolo individuale per prolungare l'eternità personale. Ne ha messi tanti LBJ, tantissime clutch sulla sirena. Invece LeBron alza gli occhi, vede Rui Hachimura libero in un angolo. E passa la palla. Un gesto pulito, altruista, easy. Il giapponese prende la mira, tira. La palla vola, ciof. Sirena. Tripla. 123-120 Lakers. Il palazzetto
esplode in un boato liberatorio, dividendosi tra i disperati per la sconfitta e gli esaltati per la vittoria, non per la fine di un record, ma per la bellezza della giocata fatta.
Nel tunnel verso lo spogliatoio, i microfoni soffocanti dell'NBA lo circondano, come sempre. La domanda è secca: «LeBron, la tua striscia è finita. Cosa provi?» Lui si ferma. Un sorriso lieve gli increspa il volto segnato dalla fatica. «Niente», risponde, con la serenità di chi ha già ottenuto tanto, tutto. «Abbiamo vinto». Poi, come un maestro che insegna l'ultima lezione: «Bisogna sempre fare la giocata giusta. È così che mi hanno insegnato a giocare a basket, l'ho fatto per tutta la mia carriera».
In quel corridoio illuminato al neon, LeBron James non è più solo il re dei numeri e dei record. È l'uomo di Akron (Ohio) che, a quarantuno anni (li compirà il prossimo 30 dicembre), sceglie di passare la torcia invece di stringerla egoisticamente, come i campioni assoluti fanno e faranno ancora. L'immortalità non gliela toglierà nessuno.